Articolando
Articolando, e' una nuova rubrica, nasce per dar voce a tutti gli amanti della poesia, dell'arte, della storia, della pittura, della critica letteraria attraverso recensioni, relazioni e articoli strettamente culturali. Chiunque volesse pubblicare può farlo mandando i propri scritti all'indirizzo di posta elettronica tonycausi@alice.it grazie!
In questo n.8 ritroviamo il bravo poeta dialettale, valente e originale traduttore e scrittore, si tratta di Marco Scalabrino con due elaborati : uno dal titolo "U principinu" e l'altro "Callimaco".
Buona lettura a tutti voi !
Mario Gallo
u principinu
di Marco Scalabrino
Che c’entri la globalizzazione (?!)
ci colpisce che questo volume, pubblicato in settecento copie col patrocinio della
Regione Siciliana, dell’Assemblea Regionale Siciliana e della Fondazione
Ignazio Buttitta di Palermo, sia stato stampato in Germania, dalle Edition Tintenfass.
Non i contenuti e le forme de le petit prince, né i contenuti e le
forme della versione in lingua italiana a noi più vicina saranno all’attenzione
di questa breve testimonianza, quanto piuttosto i temi e soprattutto gli esiti di
questa ennesima versione. Come non
mai possiamo affermare ennesima versione, giacché le petit prince, che ci risulti, è stato tradotto ad oggi in
oltre 220 idiomi, dall’afrikaans allo zulu, dal bengalese allo yiddish,
passando per l’armeno, il lituano, lo swahili e perfino l’esperanto, il gaelico,
il latino, e ciò fa di le petit prince una
fra le opere più diffuse, conosciute e lette al mondo. Tant’è che, soltanto in
Italia, essa è stata adattata, oltre che nella lingua nazionale, altresì nei
dialetti bergamasco, bolognese, friulano, milanese, napoletano, piemontese, sardo,
veneziano e, ora, anche siciliano.
La lettura della traduzione, che
per quanto di nostra conoscenza è la prima in siciliano e quindi essa pure da
considerarsi un originale, mentre il testo le
petit prince di Antoine De Saint-Exupéry è da intendersi quale l’opera
prima alla quale la traduzione fa riferimento, ci fornisce il destro per
numerose notazioni sul dialetto siciliano, su talune delle quali, succintamente,
di seguito argomenteremo. Ad iniziare dalla didascalia relativa alla
illustrazione che per prima incontriamo all’interno, la quale, a ben leggerla, si
mostra come una sorta di identikit del traduttore e ne “tradisce” nettamente la
provenienza. La frase in argomento è: “Jò criu chi iddu, pi jirisinni,
apprufittau di na migrazioni d’aceddi sarvaggi.”
Ìu, èu, iè, ièu,
iù sono alcune tra le tipologie, qua
e là usate in Sicilia, per esprimere il pronome personale “io” e ognuna di esse
gli studiosi hanno attribuito a una determinata localizzazione geografica. E così,
per dirla col monumentale VOCABOLARIO SICILIANO Piccitto – Tropea – Trovato, “iò”
appartiene preminentemente alla circoscrizione “TP 20” , ovvero, verifichiamo nel reticolato
della cartina ivi inclusa, alla punta più occidentale della Sicilia, alla
provincia di Trapani. Un percorso così sinuoso per proclamare che Mario Gallo è
trapanese e che a motivo di ciò le peculiarità che ne denunciano tale provenienza
sono insite nella sua parlata e correnti nella sua scrittura; l’impiego esclusivo
del pronome “iò” ne è palese riprova. La forma Jò, infatti, è diffusa nell’aria
della Sicilia nord-ovest, area rappresentata dai comuni di Buseto Palizzolo,
Custonaci, Erice, Favignana, Paceco, San Vito Lo Capo, Trapani e Valderice.
Quella posta in essere da Mario Gallo è “traduzioni dû francisi
‘nsicilianu”. Ecco, notiamo, egli utilizza le preposizioni articolate contratte,
che caratterizza con l’accento circonflesso, per cui troveremo: dû francisi, ê
picciriddi, ntô munnu, dâ natura, â storia, pâ virità, nnâ me vita, ô stessu
liveddu, pî ranni, nô misteru, cû tiliscopiu, dî cosi, câ so pecura, chî
matiti, pû culuri, dî baobab, ntê visciri, eccetera. Forme che sono in buona sostanza
quelle proprie della parlata e di questa trasmettono l’immediatezza; mentre,
per contro, il siciliano letterario lascia separate le due parti morfologiche e
preferisce la soluzione preposizione più articolo.
Il dialetto siciliano: i suoi lemmi che tuttora noi adoperiamo
con naturalezza, con proprietà di significato, con i quali assolviamo
egregiamente l’esigenza sociale della comunicazione, che fanno parte a pieno
titolo dell’odierno, nostro, quotidiano conversare. Orbene, quantunque pregni
di vitalità, di attualità, essi sono antichi di secoli, quando non addirittura di
millenni; ma di ciò non abbiamo consapevolezza, perché, invero, forse mai ci
siamo interrogati in tal senso. Il siciliano, infatti, le cui radici (diciamo
così ufficiali) affondano nel lontano 424 a .C. con la virtuale costituzione ad opera
di Ermocrate della nazione siciliana, “Noi non siamo né Joni né Dori, ma Siculi”,
è un organismo vivo, palpitante, un organismo capace di resistere alle
influenze delle disparate altre culture con le quali si è “incontrato”, capace
di acquisire da ognuna di esse quanto di volta in volta più utile al suo
arricchimento e di stratificare tali conquiste sulle proprie, originarie
fondamenta. E così si avvicendano in epoche successive il greco-siculo, il
latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo, ma in
definitiva sempre una lingua, una sola: il siciliano. Tra le notazioni doverose
su questo lavoro di Mario Gallo è da rilevare, pertanto, quella afferente alla scelta
lessicale; scelta che, estraendo appunto dall’incommensurabile patrimonio del
nostro dialetto voci, espressioni, soluzioni assai felici, impreziosisce la
traduzione. Ne proponiamo solo pochi eloquenti esempi, con a fianco in
parentesi il corrispettivo in lingua italiana: passatera (incidente), ‘nfastiriatu
(di malumore), ‘nfrinzai (tirai
fuori), tistiannu (scrollò il capo), ntracchiatu (elegante), arrunchianu i spaddi (alzeranno le
spalle), na larma chiù ranni
(letteralmente una lacrima, poco più grande), cuddata dû suli (letteralmente tracollo del sole, tramonto), alluccutu (stupefatto), zicchiava (sceglieva), munciuniatu (sgualcito), tampasiari (indugiare), fa attaccari
i nervi
(è irritante), siddiarsi (letteralmente
scocciarsi, annoiarsi), vavusu
(vanitoso), quannu ammicciau (appena scorse), arrusciu (innaffio), vecchiu bonentu (vecchio signore), mazzacani
(grosse pietre), abbanidduzza
(semiaperte).
Peculiarità del dialetto
siciliano, saldamente legata al latino, è costituita dalla perifrastica (da
perifrasi: giro di parole), che in siciliano non è passiva come nel latino e
viene resa mutando il verbo Essiri in
Aviri. Il latino mihi faciendum est, difatti, in italiano si volge con la perifrasi
io debbo fare, o consimili, mentre il siciliano lo rende con aju a
fari. E, nel principinu: aviti a pinzari, dovete pensare, si ci avâ diri, bisogna dire, m’appâ fari vecchiu, devo essere
invecchiato.
Come del resto è già
avvenuto in altre lingue, nel siciliano il verbo Essiri ha perduto, in favore del verbo Aviri, le funzioni di verbo ausiliare: m’avissi piaciutu, mi sarebbe piaciuto, avissi statu, sarebbe stato. Si è verificato altresì il
ripiegamento del modo Condizionale a vantaggio del Congiuntivo: truvassiru, troverebbero, fussi, sarebbe, facissi, farebbe, lassassi,
lascerebbe, e del tempo Passato Prossimo a beneficio del Passato Remoto: ‘ncuntrai, ho incontrato, campai, ho vissuto, accattai, ho comperato …
Nel dialetto siciliano manca il
tempo futuro dei verbi. “Come interpretare questa anomalia? Ecco lo spunto – asserisce
Paolo Messina – per un nesso fra lingua e cultura, modi di essere e di pensare.
È la consapevolezza storica dell’esserci heideggeriano a produrre la riduzione
continua del futuro a presente, all’hic
et nunc, e ciò nel pieno possesso del passato ormai definitivamente
acquisito. I siciliani sono padroni del tempo o, per dirla con Tomasi di
Lampedusa, sono Dei. Ma essere (o ritenere di essere) padroni del tempo può
voler dire dominare mentalmente la vita e la morte, avere la certezza della
propria intangibilità solo nel presente, un presente che si appropria del tempo
futuro per scongiurare la morte, ombra ineliminabile dell’esserci. Quello che
conta è il presente. Essere e divenire, insomma, nell’ansia metafisica si
fondono o si confondono.” Manca il tempo futuro e ogni proposizione riguardante
un’azione futura viene costruita al presente e al verbo si associa un avverbio
di tempo. Il principinu non deroga a
tale precetto: ti pozzu aiutari ‘n jornu,
potrò aiutarti un giorno, tu rumani sî
luntanu, tu sarai lontano, capisci
allura, capirai …
Nel dialetto siciliano
occidentale (ossia delle parlate del trapanese, dell’agrigentino centro
occidentale e di parte del palermitano) è inoltre del tutto assente il dittongo
metafonico, ovvero la dittongazione della vocale accentata: vientu per ventu, fierru per ferru, buonu per bonu, truonu per tronu, che è invece presente nelle parlate della Sicilia
centro-orientale, ossia nelle zone del sostrato siculo. Per l’assenza della
metafonesi, osserva Giorgio Piccitto, il dialetto siciliano-occidentale si distacca
da tutti gli altri dialetti centro-meridionali.
Capita persino nelle migliori
famiglie, e neppure stavolta, probabilmente a causa della nefanda
precipitazione di chiudere che sopravviene ogniqualvolta si è alle stampe, vi
si è sfuggiti, di inceppare in qualche svista. Convinti come siamo che
viceversa, con un pizzico più di attenzione, vi si sarebbe potuto ovviare
provvedendo alla loro corretta distinzione ortografica, rileviamo nondimeno
l’incongruenza nella scrittura di cu sî?
chi sei, cu veni, chi verrà, cu siti?, chi siete? pronome, e cu tia, con te, cu l’occhi, con gli occhi, cu
iddu, con sé, preposizione.
Ciò malgrado, un plauso a Mario
Gallo e buon principinu a
tutti.
§ § §
Callimaco, 310 ca. a.C.
di Marco Scalabrino
“O tu ca passi … / ricordati ca sugnu …
patri / d’un Callimacu natu nta Cireni / … pueta”;
“Passanti, tu si’ accantu di la tomba /
di lu figghiu di Battu, / bravu comu pueta.”
Biografia essenziale – luogo di nascita, paternità e
(ribadito) status di poeta – fornitici
di prima mano, rispettivamente dagli epitaffi per il padre, Batto, e per se
stesso.
A corredo di questo succinto elaborato su Callimaco, poeta,
erudito, precettore, catalogatore della Biblioteca di Alessandria d’Egitto, ricorreremo
a taluni convenienti cenni e, quanto a ciò che più ci preme in questa sede: la
poesia, come egli la percepì e la realizzò, al supporto dello stesso autore.
E ci avvarremo – in apertura un anticipo – di un risicatissimo
numero di versi, per giunta nella loro traduzione in Dialetto operata da
Salvatore Camilleri, poeta e letterato siciliano tra i più insigni del secondo
Novecento, il quale in proposito appunta: “Con Callimaco la poesia greca si
rinnova, e per le mutate condizioni politiche, quali sono quelle che seguono il
grandioso sogno di Alessandro, e per una nuova concezione della vita, a misura
d’uomo, più legata alla realtà, al contingente. Di questa poesia, egli è il
poeta più alto, il teorico più illuminato, l’artista più completo.”
La poesia di Callimaco rompe col
“canto unico e continuato”, non celebra più il mito degli dei e degli eroi.
Essa predilige “la brevità e la leggerezza”, congiunte alla raffinatezza dello
stile, e per prima intese indirizzarsi non alla moltitudine ma a un uditorio selezionato
che ne cogliesse e apprezzasse lo spirito, l’erudizione, la grazia, l’ironia. Ma
l’aspetto più rimarchevole, determinante, che in definitiva ci incanta, è
quello del poeta dalla consapevolezza e dalla originalità assolute, dell’innovatore
il quale concepisce che la poesia deve inoltrarsi per i sentieri inusitati e non
già ripercorrere le piste battute, deve trovare in sé la propria autonoma
giustificazione – la nozione dell’arte per l’arte – e sottrarsi ad ogni finalità
morale, pedagogica, civile, religiosa ...
“Pueta, si addevi / ‘n-animali pi fari
un sacrifiziu, / criscilu beddu grassu. /
Però la puisia l’hâ
fari sèngula. / Pi di chiù ti cumannu di non fari /
la stissa strata di
li carriaggi / unn’è ca tutti passanu a fudduni. /
Non mettiri li roti /
di li to’ carrioli / unni ci sunnu già li ntacchi fatti, /
nta la carrata granni.
/ Pigghia trazzeri novi / puru si sunnu stritti.”
E ulteriormente proclama:
“Odiu la puisia fatta a stigghiola / e
la strata cumuni, ca la fudda /
scarpisa d’ogni
parti. / Non m’attira / n’amanti ca si duna a chistu e a chiddu. /
Non bivu a la funtana
di la chiazza. / Disprezzu chiddu c’apparteni a tutti.”
Quest’ultima altresì nella
versione in lingua allestitane da (un altro illustre siciliano) Salvatore
Quasimodo: “Non amo la poesia comune e odio / la strada aperta a chiunque. /
Odio un amante goduto da tutti / e non bevo a una pubblica fontana. / Odio ogni
cosa divisa con altri.”
Non senza ragione dunque,
Callimaco fu definito il più moderno tra i Greci, si è parlato della sua quale
l’archetipo di una visione nuova della poesia, antesignana quasi di quella
moderna.
“Dicinu ca non aju / mancu scrittu un
puema, granni e grossu, /
di milli e milli
canti, / dicantannu li re / o li superbi eroi di lu passatu, /
ma sulu puisii di
pocu versi, / com’è ca li po fari un picciriddu”,
egli ribatté:
“Canciati sistema; / mparati a giudicari
/ la puisia cu l’arti, / non cu la longa
ammàtula / pertica
pirsiana, / e non m’addumannati / canti comu li trona
ca ribbùmmanu! / Non
è còmpitu miu, / ma còmpitu di Giovi truniari.”
Callimaco, dopo oltre duemila anni, ancora esemplare.
Nessun commento:
Posta un commento