Articolando
Articolando, e' una nuova rubrica, nasce per dar voce a tutti gli amanti della poesia, dell'arte, della storia, della pittura, della critica letteraria attraverso recensioni, relazioni e articoli strettamente culturali. Chiunque volesse pubblicare può farlo mandando i propri scritti all'indirizzo di posta elettronica tonycausi@alice.it grazie!
In questo n.4 troviamo il fine Poeta dialettale, ottimo e originale traduttore e valente scrittore , Marco Scalabrino con due elaborati : uno dedicato alla grande cantautrice licatese Rosa Balistreri e l'altro riguarda un'intervista immaginaria fra lui e il poeta nisseno Salvatore Camilleri. Buona lettura a tutti voi !
Rosa Balistreri
e il
linguaggio nelle sue canzoni
di Marco Scalabrino
A fondamento
di questo elaborato, volto a compendiare in poche cartelle rapide osservazioni
inerenti al linguaggio e segnatamente alle formulazioni del dialetto siciliano
corrente nelle canzoni di Rosa Balistreri, sono le stesure dei testi pubblicati
a corredo dei compact disk: Amore tu lo
sai la vita è amara, Terra che non
senti, Noi siamo nell’inferno carcerati, Vinni a cantari all’ariu scuvertu. La figura di Rosa Balistreri
nelle sue fattezze principali, la dura vicenda umana in una delle provincie più
povere d’Italia, Agrigento, prima e la sofferta condizione di emigrata a
Palermo e a Firenze poi, la parabola artistica fino a divenire “la voce più
struggente e autentica di una Sicilia dolorante e umiliata, ma viva nella sua
fierezza e nella sua dignità”, addirittura per definizione di Ignazio Buttitta
“la cantatrice del Sud”, è già stata oggetto infatti di specifiche trattazioni.
Su quelle quindi, scontato che, soppesa Salvatore Camilleri, “Non c’è versante
espressivo senza versante umano, non c’è arte senza vita” e che l’arte, più che
mai per Rosa Balistreri, “nasce sempre nell’ambito della sua dimensione
storica, esistenziale e umana”, assodato che aspetto importante della vita di Rosa
Balistreri è stato, sottolinea Francesco Giunta, l’insegnamento che ci ha
lasciato, “il coraggio, la determinazione, l’ostinazione, il non piegarsi per
riscattarsi volando al disopra dell’ignoranza e dell’arroganza, dell’ottusità e
della prepotenza, dell’accondiscendenza e dell’omertà”, non mi attarderò ulteriormente.
Musica
e testi tradizionali (con poche eccezioni) rielaborati da Rosa Balistreri e da Otello
Profazio, si apprende dalle note di copertina di detti CD. “I testi da lei
interpretati – asserisce Melo Freni – provengono in parte dalle raccolte del
Favara, in parte li ha direttamente ripescati nell’entroterra siciliano dove le
vecchie canzuni riescono ancora a
ravvivare la fantasia di un popolo che vive attanagliato nelle antiche paure e
sollecitato dall’antica rabbia. La sua matrice è quella dell’impegno sociale,
dell’amore che consuma, del dolore.” E Orazio Barrese puntualizza: “La scelta
dei testi non è stata facile per Rosa Balistreri che, assieme a Otello
Profazio, ha avuto come riferimento principale le raccolte del Vigo, del
Favara, del Pitrè, di Antonino Uccello, a parte taluni canti raccolti
direttamente. Difficoltà perché di ogni canto vi sono innumerevoli variazioni
sicché un verso, una strofa, un’ottava possono far parte di canzoni diverse sia
per il tema che per il motivo musicale. Il testo di Buttana di to ma’ [ad esempio] è quello che Rosa Balistreri ha
sentito cantare, quand’era bambina, al padre, ma molti dei distici che lo
compongono sono presenti in numerosi altre canzoni. Analogo discorso va fatto
per uno dei canti più noti: Amici chi ‘n
Palermu jiti: quattro versi fanno parte dell’opera teatrale I mafiusi di la Vicaria [di Giuseppe
Rizzotto e Gaetano Mosca], rappresentata per la prima volta nel 1863, due versi
sono nel canto La me liti, anch’esso
in questa raccolta. Testi “corrotti”, dunque, e tuttavia dotati di enormi
cariche emotive, espressioni di sentimenti drammaticamente autentici.”
L’endecasillabo
di conseguenza, che della tradizione popolare siciliana è il verso principe, secondo
Ungaretti “la combinazione elegante delle nostre parole”, la fa da padrone.
Endecasillabi talune volte a rima baciata, più spesso a rima alternata; distici,
Vinni a cantari all’ariu scuvertu, quartine,
Mirrina, ottave di endecasillabi, Vurria fari un palazzu. Ecco, la
gloriosa ottava siciliana, otto endecasillabi a rima alternata con schema
strofico abababab (diversamente dall’ottava toscana, otto
endecasillabi i primi sei a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata con
schema abababcc),
apparsa in Sicilia nella seconda metà del Quattrocento, il cui antico nome era canzuna poiché essa era accompagnata
(appunto) dal canto che ne permise la straordinaria diffusione in tutta
l’Europa.
Vi
è, in generale, in tutti i testi un buon registro ortografico.
Si appezzano
la trascrizione per esteso degli articoli determinativi: li biddizzi, lu suli, la liggi, lu nfernu, nonché quella della
preposizione più articolo: di la notti,
pi lu patruni, a lu ventu, cu lu mari, di li turchi, nta li manu, nni li vecchi,
lu mastru di la scola; accurata, altresì, l’enunciazione dell’aggettivo
possessivo: nta sta funtana, sta vecchia,
st’occhi, benché, per meri motivi di sillabe, di ritmo, si ricorra talora impropriamente,
in luogo dell’aggettivo, al pronome possessivo: chistu duluri, la me Agatuzza nni mori chist’annu. Fra le rare
eccezioni il raddoppio della consonante iniziale dell’avverbio cchiù, più.
Questione
che concerne gli scriventi in dialetto siciliano è quella relativa all’uso del
plurale in “a” dei sostantivi maschili il cui singolare finisce in i o in u. In Rosa Balistreri vi sono trona,
jorna, mura, vrazza. Della materia si è occupato Salvatore Camilleri:
dapprima nella sua Ortografia Siciliana,
Edizione ENAL Arte e Folklore di Sicilia
Catania 1976, e di recente, con rinnovato scrupolo, nella Grammatica Siciliana,
Edizione BOEMI Catania 2002: “Di regola il plurale di tutti i nomi, sia
maschili che femminili, termina in “i”; ad esempio: quaderni, casi, pueti, ciuri. Un certo numero di nomi maschili, terminanti al singolare in
“u” fanno il plurale in “a” alla latina; sono nomi che di solito si presentano
in coppia o al plurale: jita, labbra, corna, ossa, vudedda, coccia, gigghia, cuddara, pagghiara, linzola, dinocchia, cucchiara”. E insiste: “Molto più numerosi sono i plurali in “a”
dei nomi maschili terminanti al singolare in “aru” (latino arius) significanti, in gran parte, mestieri e professioni”. Se ne
elencano, fra gli oltre un centinaio rubricati in due pagine, i più comuni: ciurara, furnara, ghirlannara, jardinara, libbrara, massara, nutara, putiara, ruluggiara, tabbaccara, vaccara.
La
perifrastica costituisce una prerogativa saliente della lingua siciliana
proveniente dal Latino. Nel Siciliano,
tuttavia, essa non è passiva
come nel Latino e viene resa mutando l’ausiliare essere in avere. Il Latino mihi
faciendum est in Italiano si rende con la perifrasi io debbo fare o altre analoghe, mentre il Siciliano lo volge in aju
a fari. In Rosa Balistreri: t’haiu a
lassari, haiu a diri, haiu a dari.
Iu t’haiu a lassari, si mi nni vaju
jò, tu t’abbatti nnarrè e ju
nn’avanti. Iù, ju, iè, ièu,
iò, jò, èu, sono alcune tra le
svariate tipologie, qua e là usate in Sicilia, per esprimere il pronome
personale io e ognuna di esse gli esperti hanno attribuito ad un determinato
distretto geografico. E così, per dirla con Giorgio Piccitto e Giovanni Tropea
e il loro monumentale Vocabolario
Siciliano, la voce iò appartiene primariamente
al circondario “TP 20” ,
ovvero, verifichiamo nel reticolato della cartina inclusa in quei tomi, alla punta
occidentale della Sicilia, alla provincia di Trapani. Per contro, ad esempio, –
si veda il medesimo Vocabolario –, la
voce iù è localizzata nella
circoscrizione “CT I, II”, ovvero Catania e l’area etnea.
Il Siciliano,
notoriamente, è un dialetto il cui lessico, antico di centinaia di anni quando
addirittura non di millenni, è sorretto da lemmi di origine greca, latina,
araba eccetera, che ne comprovano la dovizia, la versatilità, la bellezza. In
Rosa Balistreri, solo a mo’ di esempio, troviamo a l’ammucciuni, di nascosto, muccaturi,
fazzoletto, criata, serva, arrassu, lontano, ni rincarca, ci opprime, m’allaminicu,
mi struggo, scursuni, serpe, vardedda, basto, detta, debiti.
Cantu cantu, cu’ parla
parla, banneri banneri. “Il
raddoppiamento o la ripetizione di un avverbio (ora ora, rantu rantu) –
evidenzia Luigi Sorrento nelle Nuove Note
di Sintassi Siciliana – o di un aggettivo (nudu nudu, sulu sulu)
comporta di fatto due tipi di superlativo: ora
ora è più forte di ora e
significa nel momento, nell’istante in cui si parla, nudu nudu è tutto nudo, assolutamente nudo. I casi di ripetizione
di sostantivo (casi casi, strati strati) e di verbo (cui veni veni, unni vaju vaju) sono speciali del Siciliano. Strati strati indica un’idea generale d’estensione nello spazio,
un’idea di movimento in un luogo indeterminato, non precisato, tanto che non
può questa espressione essere seguita da una specificazione, come strati strati di Palermo. L’idea di
“estensione” viene espressa dalla ripetizione del sostantivo, così originando
un caso particolare di complemento di luogo mediante il raddoppiamento di una
parola. La ripetizione del verbo si ha con la pura e semplice forma del pronome
relativo seguita dal verbo raddoppiato. Cui
veni veni intende chiunque venga, tutti quelli che vengono: il
raddoppiamento del verbo, quindi, rafforza un’idea nel senso che la estende dal
meno al più, la ingrandisce al massimo grado, anzi indefinitamente”.
“Si potrà notare – assevera inoltre Orazio Barrese – che
nei testi dialettali dei vari canti vi sono per uno stesso termine trascrizioni
difformi (figliu e figghiu, per esempio). Ciò in quanto
Rosa Balistreri canta i testi delle zone dove li ha appresi e si sa che
notevoli sono talora le differenze tra zona e zona.” Taglia, ncagliasti, pigliati, vogliu, paglia, figli, megliu, muglieri, la
forma prevalente è, nondimeno, gl,
quella ovvero in uso nell’agrigentino da cui Rosa Balistreri proviene, ma anche figghiu, pigghi, sbagghiu vi compaiono.
Apocope,
dal greco apokopé, indica la caduta
di uno o più fonemi o sillabe alla fine di un parola. Ci su’ li guai, nun sugnu
mortu no su’ vivu, du’ finestri …
bene, perché, rispettivamente, apocope su’
per sunnu, su’ per sugnu e du’ per dui. Altrove, viceversa, nei casi di su picciridda sarebbe stato meglio su’ perché apocope per sugnu e di su morti sarebbe stato meglio su’
perché apocope per sunnu.
In
chiusura, una singolarità: il testo Ntra
viddi e vaddi che, con minime variazioni che non ne stravolgono il senso,
viene riproposto, col titolo Storia da
figghiuledda rubbata di pirati, dal gruppo milazzese Taberna Mylaensis nell’album Fammi
ristari ‘nto menzu di to brazza del 1976, e la riproposizione dell’intero testo
di Amici chi ‘n Palermu jiti, uno fra
i più conosciuti ma anche belli e suggestivi: Amici amici chi ‘n Palermu jiti / mi salutati dda bedda citati / mi
salutati li frati e l’amici / puru dda vicchiaredda di me matri. / Spiatinni di
mia chi si nni dici / si li me cosi sunnu cuitati / ca siddu voli Diu comu si
dici / pur’iu cci haju a jiri a libirtati.
Marco Scalabrino
Intervista immaginaria
a Salvatore Camilleri
Marco Scalabrino
La Barunissa di Carini
Intervista immaginaria
a Salvatore Camilleri
di Marco Scalabrino
MS. Professore Salvatore Camilleri, la ringrazio intanto per avere accolto
la mia richiesta. Prima di affrontare l’argomento del nostro odierno incontro,
ci parli un po’ di lei.
SC.
Caro Scalabrino, cosa vuole che le dica? Lei sa bene che ho speso tutta la mia
vita al servizio della Poesia e della poesia dialettale siciliana in specie.
MS.
Possiamo nondimeno elencare, e succintamente commentare, i tratti e i titoli principali
della sua lunga prassi di poeta e letterato?
SC. Sangu Pazzu, la mia prima opera risale agli
anni 1944 - 45. Essa raffigurava in termini lirici il diario di chi, reduce
dalla guerra, ha visto franare tutti i suoi sogni. Nel 1952 mi sono trasferito a
Vicenza, per insegnarvi. Nel frattempo avevo iniziato a tradurre i classici, pubblicato
sul quotidiano catanese Il corriere di
Sicilia svariati articoli sui poeti siciliani del Cinquecento e del
Seicento e recensito parecchi poeti contemporanei, fra i quali Giuseppe Mazzola
Barreca, Carmelo Molino e Gianni Varvaro. Rientrato a Catania nel 1962, nel
1965, assieme con Mario Gori, ho fondato la rivista Sciara, cui hanno
contribuito, tra gli altri, Leonardo Sciascia, Giuseppe Zagarrio, Giorgio
Piccitto e Santo Calì. Nel 1966 ho pubblicato Ritornu e nel medesimo anno Sangu
pazzu, ove la lingua non è catanese, né palermitana, ma rappresenta la
koiné regionale, determinata dalla sola legge del gusto, in cui l’ortografia è
quella della tradizione liberata dalle incoerenze, legata alla etimologia
latina, ma non sorda al rinnovamento linguistico, e nel 1971 La Barunissa di Carini.
MS. Ecco, giusto La Barunissa di Carini vorrei che lei ci
illustrasse.
SC. Dopo ci arriviamo.
Nel 1975 Alfredo Danese decise di fondare e pubblicare la rivista Arte e Folklore di Sicilia e sulle pagine di quel periodico, dall’esordio e fino al 2008, hanno visto la luce decine e decine di
miei saggi e interventi critici. Nel 1976 ho pubblicato Ortografia siciliana e nel 1979 Luna
Catanisa, nella cui premessa ribadisco che non c’è risoluzione dei problemi
formali senza risoluzione all’interno della coscienza, non c’è versante
espressivo senza versante umano, non c’è arte senza vita: la poesia nasce
sempre nell’ambito della sua dimensione storica, esistenziale e umana, non mai
dall’esercizio fine a se stesso, dal nulla. È sempre stata mia convinzione peraltro
che nessuno procede da solo né nella vita né per i sentieri della poesia, né
mai poeta ha percorso la sua strada senza avere a fianco altri compagni di
viaggio, altri poeti, senza ricevere e senza dare a quelli che vengono dopo e,
nel 1983, ho dato alle stampe 70 POESIE,
Federico Garcia Lorca nel siciliano di Salvatore
Camilleri.
MS. Io posseggo una copia del suo MANIFESTO della nuova poesia siciliana, che ritengo sia una sorta di vangelo
per ogni poeta, in dialetto o meno.
SC. Il MANIFESTO è un tomo in fotocopie di circa
500 pagine, del 1989, che raccoglie saggi, interventi critici, poesie dei
quarantacinque anni precedenti, pressoché tutti editi su Arte e Folklore di Sicilia.
Nel 1944, allorquando iniziai a scrivere in siciliano, avvertii subito la
mancanza di un vocabolario. Quelli che trovai, non più in commercio ma in
biblioteche pubbliche, erano vecchi di quasi un secolo, e praticamente inutili,
in quanto si trattava di vocabolari siciliano-italiani. Mancava il vocabolario
che mi occorreva, come mancava a coloro che scrivevano per il teatro, agli
attori dialettali, agli studenti, ai moltissimi appassionati del dialetto:
mancava un vocabolario italiano-siciliano, cioè uno strumento capace di
aiutarmi concretamente in tutte le circostanze nelle quali non mi veniva in
mente il corrispondente siciliano di un vocabolo italiano. Nel 1998 ho dato
perciò alle stampe Il Ventaglio –
Vocabolario Italiano-Siciliano. Nel 2001 è stata la volta di Lirici greci in versi siciliani, Archiloco,
Mimnermo, Stesicoro, Alceo, Anacreonte, Simonide, Callimaco, Teocrito e altri,
che ho tradotto affinché le mie traduzioni, come i miei versi, possano far
parte della cultura siciliana. È stato un esercizio propedeutico fondamentale
che, consentendomi di misurarmi con i poeti che traducevo, ha innalzato miei
livelli di ispirazione, ha favorito la creazione di un mio linguaggio poetico, del
linguaggio delle mie opere. Ho inoltre adattato in versi siciliani: l’Odissea di Omero (Musa, pàrrami tu di dd’omu, mastru / di tutti li spirtizzi, chi gran
tempu /…), l’Eneide di Virgilio,
Le Argonautiche di Apollonio Rodio, De Rerum Natura di Lucrezio, Saffo e
Catullo e altresì poeti spagnoli e francesi e gli Arabi di Sicilia Ibn Hamdìs e Muhammad Iqbàl.
MS. Mi scusi se la
interrompo. E la Grammatica siciliana?
SC. La
Grammatica
siciliana e i trenta volumi della Storia
della poesia siciliana sono tra i miei ultimi lavori. La
Grammatica
siciliana riprende e amplia i problemi osservati nella Ortografia siciliana e li pondera, li sviscera in tutti i loro
aspetti, alla luce dei contributi scaturiti dagli incontri con gli amici con
cui se ne discuteva, tra i quali: Maria Sciavarrello, Antonino Cremona, Paolo
Messina, e dello sprone incassato da Ignazio Pidone, Orio Poerio e Giovanni
Cereda. Il penultimo capitolo di questa mia storia è del 2005: Gnura Puisia consegna quasi un ventennio
di riflessioni, soste, incontri, avanzamenti in armonia con la condizione
esistenziale del poeta, creatore per eccellenza, quindi innovatore,
trasgressore e – nei limiti – anche programmatore. Le conquiste formali
precedenti, con pochi aggiustamenti, rimangono le conquiste di sempre,
divengono le colonne del tempio; il contenuto, pure attraverso gli assalti
della sofferenza, continua sulle tracce iniziali: ’n-cerca di puisia, ‘n-cerca d’amuri pi canciari lu munnu a
sumigghianza di lu me cori. Del 2007 è biribò che, asserisce Paolo Messina
in prefazione, è “la summa di ogni escogitazione formale (dai versi liberi
all’ottava siciliana) per indagare poeticamente ogni ramo del sapere”.
MS. E SICELIDES
MUSAE …. come è venuto fuori?
SC. A 87 anni, nel 2008, esauritasi
l’esperienza di Arte e Folklore di
Sicilia ma non la mia voglia di
impegnarmi, ho fondato a Catania con altri amici il bimestrale letterario SICELIDES MUSAE.
MS. Molto bene; grazie. Ci parli adesso
de La Barunissa di Carini.
SC. Nell’estate del 1971 fui
invitato da un libraio editore a preparare una nuova rielaborazione del testo
della Baronessa di Carini e a premettervi un saggio introduttivo. Mi misi
subito al lavoro e preparai l’opera, che apparve nel Dicembre dello stesso
anno.
MS. Con che accoglienza?
SC. Dire che la stampa se ne
sia interessata è un bugia. Bernardino Giuliana, però, incantò le platee di
molte località della Sicilia con le sue magistrali interpretazioni, Fortunato
Pasqualino mi comunicò che l’aveva letta con grande piacere, Lidia Alfonsi mi
consigliò di trarne un film o uno sceneggiato televisivo.
MS. E, con tali favorevoli premesse,
come finì?
SC. Finì che il libro non
ebbe alcuna recensione, ma nel primo anno di vita, una poetessa venezuelana,
Yuri Weky, ne fece una traduzione in spagnolo, verso la fine del 1972 Lucio
Mandarà mi accennò della possibilità di realizzare uno sceneggiato per la televisione,
e in seguito Massimo Mollica mi informò dell’approvazione del progetto e della
sua prossima realizzazione.
MS. E dunque il giusto
riconoscimento è arrivato?
SC. Non propriamente. Durante la presentazione in televisione dello
sceneggiato fu fatto il mio nome come di chi è stato a interessarsi per ultimo
della Baronessa di Carini, né una parola
in più, nonostante durante le quattro puntate dello sceneggiato Paolo Stoppa parlasse spesso con le mie parole.
MS. Siamo alle solite: la fatica è nostra e i meriti altrui.
SC. In parte, sì. In
effetti, con la proiezione dello sceneggiato qualche briciolo di notorietà
venne anche alla mia opera. Giuseppe Bocconetti su Radio Corriere TV scrisse che “Salvatore
Camilleri, sulla vicenda ha scritto un interessante volume al quale Mandarà si
è rifatto”; Luigina Grasso su La Sicilia: “Salvatore Camilleri è insigne
storico e dalla sua opera Mandarà e D’Anza hanno ampiamente attinto per il loro
soggetto”; e Aurelio Rigoli, sul Giornale
di Sicilia: “La Rai-TV ha utilizzato un recente lavoro di un autore
catanese per la trasmissione televisiva”, ma mi ha rattristato che non abbia
fatto il mio nome.
MS. Ma qual è la
vicenda de La Barunissa di Carini?
SC. Il 4 dicembre 1563 viene consumato nel Castello di Carini un efferato
crimine: vittima è la Barunissa,
uccisore il padre. Questi, uno dei personaggi più potenti e prepotenti del
regno, impone il silenzio su quei foschi fatti, nei quali è implicato l’onore della
casata. Tutti i diaristi dell’epoca pertanto taceranno e si deve unicamente a un
poeta, che elaborò un poemetto su quei tragici avvenimenti, se quella storia si
diffuse nei secoli tanto da pervenire fino a noi.
MS. Professore Camilleri, chi era La Barunissa di Carini? E perché il
padre la uccise?
SC. Caterina La Grua, giovane figlia del barone La Grua-Talamanca, “supremamente
bella”, corteggiata dal cugino Vincenzo Vernagallo se ne innamora e gli si dà. Ma
il barone, venutone a conoscenza per le confidenze di un frate “tristo, ingrato
e invidioso”, cerca di uccidere l’amante, il quale riesce a fuggire e a
rifugiarsi a Palermo; non fugge però Caterina, che viene uccisa e il cui sangue
“si può ancora vedere a una parete della torre di Carini”.
MS. Io so che
Salvatore Salomone-Marino …
SC. Prima di lui il Marchese
di Villabianca, vissuto tra il 1700 e il 1800, e Lionardo Vigo, nel 1857, e
successivamente Giuseppe Pitrè, nel 1870 e poi nel 1891, ne scrissero
estesamente; il Pitrè prospettando l’ipotesi dell’uxoricidio. Ma, come comprova
definitivamente il Salomone-Marino nel 1914 e io sostengo, la tesi è niente
affatto condivisibile e suffragata. Il Salomone-Marino, sin dal 1867, raccolse
prima un centinaio, poi circa cinquemila e infine qualcosa come ventimila versi
e trecentonovantadue varianti, con i quali ricostruì il poemetto, in conformità
alla verità storica che egli si era venuto formando e che i testi gli
confermavano. In stagioni più recenti, Giuseppe Cocchiara, nel 1926, e Federico
Di Maria, nel 1943, ristamparono rispettivamente le edizioni del 1914 e del
1873 del Salomone-Marino.
MS. Le rivolgo, a
questo punto, la domanda delle domande: chi è l’autore de La Barunissa di Carini?
SC. La sua domanda è
destinata a rimanere senza risposta. Si sono fatti alcuni nomi: Matteo Di
Gangi, Antonio Veneziano, Geronimo D’Avila, Vincenzo Bosco, Mariano
Bonincontro, Mariano Migliaccio, Tubiolo Benfare. Antonio Pagliaro, nel 1956, distinse
due diverse personalità nell’autore del poemetto: il primo, quello, delicato e
aulicizzante, della canzunedda rispittusa,
esordio del componimento e dell’incontro fra il barone e la figlia; il secondo,
ancorato alla tradizione popolaresca, quello delle altre parti. Tubiolo Benfare,
per le considerazioni comparate che ho espresso nel libro, è l’unico che a mio
avviso avrebbe potuto scrivere il poemetto.
MS. La sua
ricostruzione, allora, a chi si rifà?
SC. Oltre a quelle menzionate, il poeta Vann’Antò, Giovanni Antonio Di
Giacomo, approntò una edizione del poemetto e un ponderoso volume di Aurelio
Rigoli contenente i ventimila versi e le
trecentonovantadue varianti raccolti da Salomone-Marino uscì nel 1963. La ricostruzione del 1873 di Salomone-Marino
costituisce, a parere mio, quanto di più autenticamente poetico ci abbia
conservato la tradizione orale. Il compito che mi sono assunto è quello di
ripresentare quel testo, possibilmente migliorato, liberandolo di molte delle
sue incongruenze, facendo tesoro anche delle ricostruzioni di Luigi Galante,
del 1909, e di Federico Di Maria. La mia rielaborazione è estetica e non
filologica, ed è intesa a formulare un testo finalmente accessibile, un testo
poetico e non folkloristico, un testo che ci restituisca il capolavoro della
poesia siciliana popolare.
MS. Ma, ci sono dei
suoi versi nella riedizione del 2005 della sua Barunissa?
SC. Non più di una decina; li
troverà tra virgolette.
MS.
E come è strutturata l’opera?
SC. Si articola in sette parti, denominate:
La canzunedda rispittusa, L’amore, La morte, La mala nova, La mala sorte, La discesa
all’inferno, Rimorso, preceduta
ognuna da una rapida introduzione, una strofe per pagina, con commento
esplicativo, brevi riferimenti storici e qualche nota estetica.
MS. Professore Camilleri la ringrazio di
cuore per l’amabile conversazione, per le sue appassionanti delucidazioni e le chiedo, in
chiusura, che mi autorizzi a corroborare questo nostro colloquio con alcuni stralci
della sua Barunissa di Carini.
SC. Va bene; li scelga lei
stesso.
Chianci
Palermu, chianci Siracusa / ’n-Carini c’è lu luttu p’ogni casa. /
Attornu
a lu Casteddu di Carini / ci passa e spassa un beddu Cavaleri, /
lu
Vernagallu di sangu gintili / ca di la giuvintù l’onuri teni. /
“Amuri
chi mi teni a to’ cumanni, / unni mi porti, duci amuri, unni?” /
Tutta
la notti nsèmmula hannu statu: / la cunfidenza longa l’hannu a fari. /
Lu
munacheddu nisceva e ridia, / e lu Baruni sulu sdillinia. /
Afferra
lu Baruni spata ed ermu: / “Vola, cavaddu, fora di Palermu!” /
Chianci
Palermu, chianci Siracusa / ’n-Carini c’è lu luttu p’ogni casa. /
“Viju
viniri na cavallaria… / Chistu è me patri chi veni pri mia! /
Viju
viniri na cavallarizza…/ Chistu è me patri chi mi veni ammazza. /
Signuri
patri, cchi vinistu a fari? / Signura figghia, vi vegnu a ‘mmazzari!” /
Lu
primu corpu la donna cadìu, / l’appressu corpu la donna murìu; /
‘n-corpu
a lu cori e ‘n-corpu ntra li rini, / povira Barunissa di Carini. /
Ora
spaccatu è ddu filici cori, / e di lu chiantu Sicilia ni mori. /
Chianci
Palermu, chianci Siracusa / ’n-Carini c’è lu luttu p’ogni casa.
Marco Scalabrino
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